La neve cadeva fitta come un muro, come se il cielo stesso volesse cancellare le tracce del passato.
Elena camminava lungo un sentiero stretto accanto al vecchio villaggio, dove sorgevano case che odoravano di fumo e povertà. Ogni passo risuonava nel suo petto.

9 anni. 9 anni aveva aspettato quel giorno. Non per perdonare, ma per chiudere un capitolo. Si fermò davanti a una vecchia casa scrostata, dove un tempo viveva la madre di Artyom. Proprio quell’Artyom che per primo aveva colpito suo figlio, che lo aveva preso a calci finché non smise di respirare.
All’epoca aveva solo 1 anno. Il tribunale aveva dichiarato minorenne: “Incidente, rissa, 9 anni e libertà, e suo figlio sotto terra”. Elena chiuse gli occhi, ricordando quella sera, le risate fuori dalla finestra, il tintinnio delle bottiglie, la musica.
Sashka era appena entrato al college, era venuto da lei, l’aveva baciata e detto: “Mamma, faccio presto, è il compleanno dei ragazzi”.
Lei aveva sorriso. Il suo bambino era luminoso, buono. Tre ore dopo, una vicina la chiamò.
La voce tremava, balbettava: “Lena, vieni, hanno trovato Sashka nel cortile.” Quando arrivò, la neve era già rosa.
Accanto stavano tre ragazzi, spaventati, ubriachi.
Uno piangeva, un altro si giustificava, il terzo rideva. Era Artyom. Il suo riso ancora riecheggiava nelle orecchie di Elena.
Poi ci fu il processo, il pubblico ministero indifferente, l’avvocato che parlava di incidente sfortunato.
Ad Artyom furono dati 9 anni, agli altri meno, e a lei fu data un’eternità di dolore.
Da allora non ha più vissuto, solo esistito. Lavorava come infermiera, teneva in braccio figli altrui, medicava ferite altrui, mentre le proprie dentro di lei non si rimarginavano.
Quando arrivò la lettera, breve, ufficiale: “V. Vaserov liberato condizionatamente”, lei la mise semplicemente sul tavolo, poi si sedette, guardò a lungo fuori dalla finestra e per la prima volta in 9 anni sorrise. “Allora, è arrivato il momento”, sussurrò.
Non sapeva cosa avrebbe fatto, non immaginava come fosse la vendetta, ma sapeva che doveva vederlo con i propri occhi, assicurarsi che fosse vivo, che il mondo non fosse impazzito, permettendo agli assassini di camminare sulla terra.
Lo seguì per una settimana, stette davanti al cancello dell’autofficina dove ora lavorava.
Lo osservava mentre si puliva le mani dall’olio, scherzava con i colleghi, abbracciava la giovane moglie che lo salutava dopo il turno. Aveva un figlio piccolo, con occhi grandi.
Elena guardava quel bambino e sentiva qualcosa rompersi nel petto. Era un colpo più forte di qualsiasi altro che fosse stato inferto al suo bambino.
La sera tornò a casa. Nell’appartamento vecchio e buio tutto era come 9 anni prima. Sullo scaffale, una foto di Sashka in divisa scolastica con una margherita in mano.
Il suo fiore preferito. Glielo aveva regalato allora dicendo: “Mamma, le margherite sono per le persone buone”. Elena rimase a lungo davanti alla fotografia. “Le persone buone non sopravvivono, figliolo”, sussurrò, sfiorando il vetro con le dita.
“Muiono per mano di chi la legge poi perdona”. Iniziò a prepararsi. Cambiò documenti, affittò una casa sotto falso nome, si mise a lavorare come infermiera nell’ospedale dove era ricoverata la madre di Artyom.
La vecchia era gravemente malata, aveva bisogno di cure. Ironia del destino: l’assassino di suo figlio dipendeva ora da lei.
Quando Elena entrò per la prima volta nella stanza, la madre di Artyom era sdraiata con gli occhi chiusi, il viso segnato, capelli grigi sul comodino, una foto del figlio con il bambino.
Sul bordo del letto pendeva una sciarpa lavorata a maglia, quella stessa che aveva fatto un tempo per Sashka. Elena si fermò, il cuore batteva, ma sul volto serenità, come una professionista. “Buona sera.
Sarò la vostra infermiera”, disse con calma. “Grazie, figlia mia”, rispose rauca la vecchia senza aprire gli occhi. Il dolore era costante, ogni notte Elena veniva, faceva iniezioni, aiutava a girarsi, parlava con lei.
La donna si abituò gradualmente a lei, la chiamava buona, quasi di famiglia. Elena ascoltava e sorrideva, ma dentro ardeva una fiamma. Una volta la vecchia chiese: “Hai figli?” Elena distolse lo sguardo.
C’era. E lui? Silenzio durato un’eternità. Poi Elena disse: “È morto, lo hanno ucciso.” “Dio mio, come?”
Così. Ragazzi ubriachi, stupidi. Uno di loro era suo figlio. La vecchia impallidì.
Elena vide le sue labbra tremare, gli occhi pieni di orrore. “Stai mentendo”, sussurrò, stringendosi il petto.
“Non poteva, poteva”, rispose Elena sottovoce, alzandosi. “E ho aspettato 9 anni per dirvelo.” La vecchia cominciò a soffocare.
Il monitor fischiò, le mani tremavano. Elena si avvicinò lentamente, posò la mano sulla spalla. Non abbiate paura, sono con voi. Solo dormite.
Staccò l’ossigeno.
Il fischio diventò regolare. Tutto. Né medici né telecamere notarono nulla. Arresto cardiaco. Il giorno dopo Artyom era al funerale della madre.
La neve cadeva sulle sue spalle, sul cappellino del figlio. Si asciugava gli occhi senza capire chi avesse lasciato una margherita bianca sulla tomba. In lontananza, tra gli alberi, stava Elena. Nessuna lacrima, nessuna gioia, solo vuoto.
Uno dei tre, ne rimanevano due. La sera tornò a casa, tolse il cappotto, si avvicinò alla foto del figlio e mise accanto un’altra margherita. Un fiore per ognuno di quelli presenti quella notte, sussurrò.
Ne rimanevano due. Fuori, la neve cadeva di nuovo, bianca e silenziosa, come se Dio stesso cercasse di cancellare il suo peccato.
Ma dentro Elena non c’era né pentimento né pace. Solo freddo e la sensazione che il cammino fosse iniziato, e ora non poteva fermarsi.
Trascorsero 3 mesi dalla morte della madre di Artyom. L’inverno era passato, ma nell’anima di Elena c’era lo stesso gelido silenzio.
Sapeva che il prossimo sarebbe arrivato. Kirill, quello che rideva quando suo figlio cadeva, quello che aveva registrato tutto per poi mostrarlo agli amici. In tribunale piangeva, si pentiva, prometteva di non bere più.
9 anni erano passati, e i suoi occhi quella sera erano gli stessi: indifferenti, cattivi, ubriachi. Ora Kirill lavorava come guardiano in un supermercato. Era ingrassato, calvo, ma dentro era sempre lo stesso arrogante e rumoroso.
Ogni sera sedeva in un bar economico, beveva birra e raccontava come tutto fosse diverso. Elena lo osservava dall’angolo, fingendosi una cliente casuale.
Non la riconobbe. E chi l’avrebbe riconosciuta? Da giovane donna dagli occhi dolci era diventata una donna con un volto segnato dalla vita. Sapeva cosa fare.
Il caso aiutò, come sempre. E il caso non fece aspettare.
Una notte Kirill litigò con un cliente ubriaco. Lo colpirono con una bottiglia alla testa, e finì in ospedale, dove lei lavorava. Quando arrivò, gemeva, si lamentava per il mal di testa, chiedeva una iniezione di antidolorifico.
Elena si avvicinò in camice bianco con volto neutro, e lui non la riconobbe.
“Resisti un po’,” disse calma. “Passerà tutto.” Lui la guardò confuso. “Mi sembri familiare… ci siamo già visti?”
Elena sorrise appena. Mh. Forse tra tante persone non ci si ricorda tutti. Fece l’iniezione, poi un’altra. Lui iniziò a respirare più lentamente. La stanza si fece silenziosa.
Elena si sedette accanto a lui, osservandolo. “Ti ricordi il bambino che colpisti allora? Piccolo, con giacca con cappuccio?
Chiedeva: ‘Basta!’ E tu ridevi. Ti ricordi?” Kirill aprì gli occhi, cercò di sollevarsi ma non ci riuscì. Le labbra tremavano. “Chi sei, la madre di quel bambino?” rispose lei.
Sospirò come se l’aria fosse finita. Le dita tremavano, gli occhi si rivolsero verso l’alto.
Tutto. Il monitor diede una linea retta. Elena stette in silenzio. Né rabbia, né sollievo, solo silenzio infinito. Quando il corpo fu portato via, nessuno fece domande.
Il cuore non resistette, scrissero nel rapporto. E due giorni dopo, un breve articolo annunciava la morte improvvisa dell’ex detenuto. Elena lo ritagliò e lo mise nella scatola accanto alle margherite.
Il secondo fiore rimaneva l’ultimo. Dima, il più giovane dei tre. Aveva 16 anni allora. Al processo stette a testa bassa piangendo sempre. Provò anche a scusarsi con lei, ma non riuscì a ascoltarlo.
Per lei tutti e tre erano uguali: assassini. Le voci dicevano che dopo il carcere se ne era andato in un’altra città, lavorava come guardiano in un monastero e pregava ogni giorno. Un’altra maschera, pensò Elena, ma partì comunque.
Il monastero era fuori città, circondato dai pini. L’aria odorava di resina e candele.
Quando entrò, l’uomo di guardia al cancello alzò gli occhi e si fermò. Capì subito, anche dopo 9 anni. “Ah, siete voi”, sussurrò. La madre di Sashka. Elena annuì.
“Ti ricordi di me?” “Come dimenticare? Allora cercavo di fermarli, giuro, ma lui abbassò la testa. Sono stato codardo. Ho avuto paura e poi tutto è finito. Prego per lui ogni giorno, e anche per voi.
Perdonami.” Quelle parole la trafissero più di un coltello. Tanti anni aveva aspettato paura, pentimento. Ecco, era lì davanti a lei.
Vero, non appariscente, non come Kirill o Artyom. Dima tremava. I suoi occhi pieni di colpa. “Pensi che le preghiere cambieranno qualcosa?” chiese lei fredda.
“Mi restituirai mio figlio? La sua voce, il suo sorriso, i suoi occhi?” “No”, disse piano.
“Ma almeno cerco di vivere correttamente. Non ho diritto di gioire, ridere, amare. Vivo per ricordare.” Si avvicinò a lui, tirò fuori una margherita dalla borsa e la posò sul tavolo.
“Ho aspettato 9 anni per finire. Sei l’ultimo.” Dima non si mosse. “Se serve, uccidi. Lo accetterò.”
Forse così avrei finalmente espurato la mia colpa. La guardò a lungo. Poi, per la prima volta in quegli anni, le lacrime le scintillarono negli occhi.
Abbassò la testa. No, non tu. Sei già punito. Vivi e ricorda. È più terribile della morte. Si voltò ed uscì dal monastero. Fuori, la stessa neve bianca di 9 anni prima.
Camminava senza sentire il freddo. Per la prima volta dopo anni, il cielo non sembrava così nero. A casa, tolse il cappotto, aprì la vecchia scatola. Dentro c’erano tre margherite bianche, secche.
Vi mise la quarta, fresca, viva. “Per te, Sashka. Tutto è finito.”
Accese una candela, guardò la foto del figlio. Rideva, come quel giorno prima della sua morte.
“Perdonami per aver vissuto nella vendetta. Perdonami per non essere stata luminosa, come volevi. Ora puoi dormire in pace.”
Chiuse gli occhi. La stanza odorava di cera e margherite.
Il vento batteva alla finestra, portando con sé il suono silenzioso della campana della chiesa, come se qualcuno dall’alto finalmente l’avesse perdonata. La mattina dopo i vicini trovarono la porta socchiusa.
Elena sedeva al tavolo, con in mano la foto del figlio, un leggero sorriso sul volto.
Accanto, la scatola con le margherite: tre secche e una fresca. Nei notiziari scriveranno: “L’infermiera è morta nel sonno.”
Nessuno saprà che per 9 anni portò dentro di sé un giuramento, compiuto fino in fondo.
Nessuno capirà perché la sua mano stringeva quel fiore. Quello stesso che un tempo teneva il bambino, convinto che le persone buone esistessero.
E da qualche parte, lontano, nel monastero, il giovane guardiano accenderà una candela e sussurrerà: “Perdonaci tutti, Elena Sergeevna, e anche lui.”
La neve cadeva di nuovo, coprendo la terra con un manto bianco, come cancellando tutte le tracce di dolore.
Il mondo sembrava sapere: il cerchio si era chiuso, e solo quattro margherite rimanevano a ricordare che anche l’amore più puro può trasformarsi in oscurità, se gli viene tolto.







