La vita nel villaggio di Orekhovo assomigliava a una vecchia fotografia scolorita dal sole — dolorosamente familiare, sbiadita, ma per questo non meno cara al cuore.
Per Alisa quel piccolo mondo, perso tra campi infiniti e foreste sussurranti, era allo stesso tempo culla e prigione. Era cresciuta accompagnata dal muggito delle mucche e dal tintinnio mattutino dei secchi, avvolta dal vapore del latte fresco che sapeva di sua madre, Ljudmila.

Ljudmila era mungitrice, come lo erano state sua madre e sua nonna. Le sue mani, ruvide e arrossate dal lavoro, erano l’incarnazione dell’amore più sacrificato.
Mungevano le mucche, lavavano, cucinavano modeste zuppe di cavolo, accarezzavano i capelli della figlia la notte e rimboccavano la coperta al figlio.
Il padre, un guardaboschi dagli occhi limpidi e dalla voce quieta, era morto quando Alisa aveva appena sei anni.
I bracconieri, sorpresi da lui mentre squartavano un alce, preferirono al carcere un altro, impensabile delitto.
Semplicemente, una sera non tornò a casa, e tre giorni dopo lo trovarono in una gola remota.
Da allora, il mondo di Alisa si era diviso in “prima” — felice, soleggiato, odoroso della giacca di pelle paterna — e “dopo” — grigio, teso, colmo della silenziosa nostalgia della madre.
In quel “dopo” era comparso il fratellino minore, Gleb. Un ragazzino fragile, biondo, che guardava la sorella con un misto di adorazione e timore.
Alisa era diventata per lui tutto: bambinaia, protettrice, maestra.
Dopo la scuola non correva alle chiacchiere lungo il fiume, ma andava a prendere Gleb dalle elementari, poi lo nutriva, faceva con lui i compiti, e la sera, quando Ljudmila tornava esausta dai campi, la figlia già l’aspettava con una cena calda.
In estate, mentre le altre ragazze prendevano il sole nei fienili e civettavano con i ragazzi, Alisa, nella sua vecchia tuta logora, andava a lavorare dal contadino locale, Arkadij Petrovič.
Sarchiare le barbabietole, accatastare il fieno, accudire i vitelli — ogni lavoro era buono.
Fu proprio Arkadij Petrovič, uomo dal volto simile a una mela cotta e dallo sguardo astuto e calcolatore, che un giorno fece a Ljudmila una “proposta vantaggiosa”.
Raggiuntala dopo il turno in fattoria, scrollando le briciole di tabacco dal gilet, disse:
— Ljudmila, ma perché vi sfinite così? State barattando la vostra vita con il latte.
E la faccenda, in fondo, è semplice. Mia Sveta, sapete, è una ragazza sconsiderata.
La vostra Aliska, invece, è laboriosa, modesta.
Se li uniamo — a voi sarà più facile, e mio figlio sarà in buone mani.
E tanto, in città grande, Aliska non scapperà, non è cosa da regine.
Ljudmila, stringendo le dita screpolate, scuoteva la testa, guardando verso il cimitero dove il marito dormiva il sonno eterno:
— Ma cosa dite, Arkadij Petrovič, la felicità deve arrivare da sé, per amore. Non se ne fa mercato.
— Non c’è felicità senza soldi. Io la penso così, — rispose flemmatico il contadino. — Con Svetlan, la vostra Aliska non sarebbe certo finita male! Il ragazzo, benché focoso, ha testa.
“Focoso” era un eufemismo per il figlio sempre ubriaco e grossolano, già famoso in tutta la zona per le sue risse.
Ljudmila, stringendo i denti, rifiutò. Non avrebbe venduto la figlia come un vitello alla fiera. Avrebbero resistito.
La loro speranza più grande erano i fine settimana. All’alba, ancora nel buio, madre e figlia caricavano sul carretto i bidoni di latte, i vasetti di panna acida e di ricotta, accuratamente avvolti in asciugamani puliti, e portavano tutta quella mercanzia al mercato del capoluogo di distretto.
Per Alisa quello era un mondo intero. Un mondo di grida di mercanti, di odore di spezie e pane fresco, di tessuti variopinti e sguardi curiosi.
La bella Alisa — alta, slanciata, con una treccia del colore del grano maturo e occhi enormi come acqua di lago — attirava molti sguardi.
Ragazzi della scuola professionale, venditori ben vestiti, persino uomini rispettabili — tutti trovavano un pretesto per avvicinarsi, comprare proprio da lei, proporre “di fare un giro dopo, di andare al cinema”.
La ragazza arrossiva, ma rifiutava educatamente e con fermezza, scusandosi con gli impegni.
E in verità, non aveva un minuto libero per incontri frivoli.
Il suo mondo era racchiuso tra la fattoria, la scuola, il mercato e le faccende domestiche.
E fu così che, un sabato, al loro modesto banco, zigzagando tra le bancarelle, arrivò un’auto di una classe che in quei luoghi si vedeva solo in televisione.
La portiera si aprì silenziosamente, e dall’auto scese un uomo in abito impeccabile e occhiali da sole.
Non era un autista — era piuttosto un’ombra, incarnazione della disciplina.
Avvicinandosi, passò in rassegna con lo sguardo tutta la loro semplice mercanzia.
— Compro tutto, — disse con voce piatta, priva di emozioni.
Alisa sobbalzò per la sorpresa.
— T-tutto? — chiese, sentendo quanto suonasse sciocco.
— Tutto, — annuì lui, estraendo un grosso pacco di banconote.
Lui caricò con cura, quasi con tenerezza, i barattoli e i bidoni nel bagagliaio, tornò, pagò senza contare il resto e se ne andò.
E solo quando l’auto si dissolse nella foschia polverosa, Alisa notò che sul sedile posteriore, dietro i vetri oscurati, sedeva un’altra persona.
Una sagoma indistinta, che la osservava intensamente per tutto quel tempo.
Lo sguardo era pesante, quasi tangibile, e lungo la schiena della ragazza corse un brivido.
Esattamente una settimana dopo, tutto si ripeté. La stessa macchina, lo stesso uomo silenzioso, la stessa frase: «Compro tutto».
Dopo aver caricato la merce, si trattenne per un attimo, il suo sguardo scivolò sul volto di Alisa, come per confrontarla con un’immagine, e poi tornò all’auto.
Un istante dopo ne uscì di nuovo, tenendo in mano un enorme mazzo di rose bianche ed eustoma. I fiori erano avvolti in carta di design e legati con un nastro di seta.
— Questo è per lei, — disse, porgendo il bouquet alla ragazza sbalordita. — Il mio datore di lavoro mi ha chiesto di consegnarglielo.
Alisa, asciugandosi goffamente le mani sul grembiule, lo prese. Il profumo delle rose, mescolato all’odore del latte e della polvere del mercato, le parve la combinazione più incredibile e spaventosa al mondo.
— Ringrazi… il datore di lavoro, — riuscì a mormorare con fatica.
Quando l’enigmatico compratore apparve per la terza volta, Alisa ormai sapeva.
Non era generosità spontanea. Non era beneficenza. Era — una proposta.
Mirata, potente, virile. E non si sbagliava. Dopo aver consegnato il denaro, l’uomo in abito si trattenne un secondo.
— Signorina, il mio capo mi ha chiesto di riferirle che lei gli è estremamente simpatica.
Vorrebbe chiederle la mano. È un uomo facoltoso e garantisce la soluzione di tutti i problemi materiali della sua famiglia. Chiede soltanto la possibilità di conoscerla.
Quella sera squillò il telefono. Un vecchio apparecchio a filo, appeso in cucina, il cui trillo annunciava di solito guai. Ma la voce al ricevitore era sconosciuta.
Bassa, vellutata, con un leggero rauco nobile e un’incredibile, ipnotica calma.
— Alisa? Mi perdoni l’indelicatezza. Sono Stepan. Quello… del mercato.
La sua voce è proprio come l’avevo immaginata.
Calda… Lei mi piace moltissimo. Potrei renderla felice, se me lo permetterà.
Così iniziarono i loro strani romanzi telefonici.
Ogni sera, quando Gleb si addormentava e Ludmila si stancava davanti al forno, Alisa si sedeva sulla veranda, stringeva la cornetta all’orecchio e lo ascoltava. Lui non ostentava la sua ricchezza.
Parlava di affari, di viaggi, ma più ancora di libri, di musica, di come immaginava una tranquilla felicità familiare. Era intelligente, colto, ironico.
Chiedeva della sua giornata, di Gleb, della madre. Ascoltava. Attentamente, senza interrompere.
E Alisa, che in tutta la sua vita non aveva conosciuto tenerezza maschile e cura, se non quella materna, iniziò a sciogliersi.
Le venne voglia di vedere l’uomo da quella voce incantevole. Di scoprire il volto che si celava dietro quella saggezza e quella calma.
E quando una notte lui disse: «Alisa, non posso più aspettare.
Voglio che tu diventi mia moglie», — lei, senza pensarci, rispose: «Sì».
Ludmila pianse, supplicando la figlia di ripensarci.
— Figlia mia, ti rendi conto? Ha sessant’anni! Tu stai sbocciando, e lui… Ti rovinerai la vita!
— Mamma, è un uomo meraviglioso! — ribatteva con passione Alisa.
— È buono, intelligente, già adesso si prende cura di noi! Non è vecchio, è… saggio. Io lo voglio.
Il matrimonio fu sontuoso. Di quelli di cui a Orekhovo si parlava solo come di leggende.
Abito bianco d’alta moda, limousine cosparse di petali di rosa e folle di invitati — importanti, sconosciuti, che la osservavano con curiosità. In municipio e in chiesa la aspettava lo sposo.
Alto, slanciato, con le tempie brizzolate e in uno smoking impeccabile.
Il suo volto era segnato dalle rughe, ma nei suoi occhi ardeva un fuoco giovanile, intramontabile.
La sua mano, mentre le infilava l’anello al dito, era ferma e sicura.
Le sussurrava: «Prometto di custodirti e amarti fino alla fine dei miei giorni». E lei ci credeva.
La loro notte di nozze doveva svolgersi nella sua villa fuori città — un palazzo di vetro e cemento, che emergeva dal buio del parco come un miraggio.
Alisa sedeva sul bordo del grande letto in lingerie da sposa, ascoltando lo scroscio dell’acqua nel bagno accanto.
Il cuore le batteva in gola, per la paura, l’attesa e uno strano abbandono al destino.
L’acqua si spense. La porta si aprì. Alisa alzò lo sguardo, pronta a vedere il suo anziano marito in accappatoio.
E il respiro le si fermò.
Nell’ombra della porta, appoggiato allo stipite, stava un giovane. Molto giovane.
Difficile che avesse più di trent’anni.
I capelli scuri e bagnati gli cadevano sulla fronte, e dal volto erano scomparse tutte le rughe, nascoste fino a quel momento da un trucco sapiente.
Era sparita anche la chioma brizzolata. Ma la cosa più importante erano i suoi occhi.
Quegli stessi occhi, che l’avevano guardata con tanta saggezza e calma, ora ardevano di entusiasmo giovanile, audace, quasi fanciullesco.
Era lui. Quella stessa voce. Quello stesso sguardo. Ma un uomo completamente diverso.
Alisa balzò dal letto, indietreggiando fino al muro.
Il mondo le crollò sotto i piedi, la terra svanì.
— Stepan? — sussurrò, e la sua voce le parve estranea.
Non era un nome, ma un suono rauco, spaventato. — Cos’è questo? Che… Sei tu?
Lui sorrise. E quel sorriso era così affascinante e colpevole insieme che Alisa restò senza fiato.
— Sì, cara. Sono io. Quello vero. Non hai sposato un vecchio decrepito.
Hai sposato un giovane, follemente innamorato di te, milionario, che aveva troppa paura di essere amato ancora una volta solo per il suo portafoglio.
Fece un passo avanti, ma lei indietreggiò, e lui si fermò, comprendendo.
— Perdonami. Per questo stupido spettacolo, per questo circo.
Ti ho vista al mercato una sola volta. Stavi porgendo panna acida a un’anziana signora e sorridevi con quel sorriso luminoso e stanco… E io mi sono perso.
Ho capito che dovevo stare con te a qualsiasi costo.
Ma sapevo anche che se mi fossi avvicinato a te con quella — fece un cenno verso la finestra, dietro cui c’era la sua macchina — tu avresti visto non me, ma solo lei. I miei soldi.
La mia gabbia dorata. Avevo bisogno che tu sentissi prima me.
Il mio cuore. La mia mente. La mia anima. Che tu mi amassi senza trucco, senza maschere.
Per telefono… era l’unico modo per diventare per te semplicemente un uomo.
Stepan. E non Stepan Ignatievič, l’oligarca.
Parlava, e Alisa, scivolando lentamente lungo il muro, si accasciò sul pavimento.
Brividi le correvano sulla pelle come un’onda gelida. Circo.
Lui lo chiamava circo. Ma era stata l’operazione più complessa, più costosa, più folle e più spaventosa di conquista del cuore che lei potesse immaginare.
Inganno? Sì. Ma un inganno per paura di essere ingannato a sua volta. Una trappola?
Ma una trappola che non si era chiusa dall’interno, bensì dall’esterno, donandole al contempo un’inaspettata libertà.
Lei lo guardava — quell’uomo bello, vulnerabile, geniale e folle, che era diventato suo marito. E la paura cominciava a ritirarsi, sostituita da un turbine di altre emozioni inimmaginabili.
Sollievo. Gioia. Rabbia. Tenerezza. Pietà.
E comprensione. Profonda, lancinante comprensione della sua paura e del suo gesto.
— Io… sono sposata con te, — non chiese, constatò, ancora incapace di crederci.
— Sì, — sorrise di nuovo, con le lacrime agli occhi.
— E ti prometto che ogni giorno da ora in poi sarà vero. Senza maschere. Solo io e te.
La mattina, quando vennero a prenderli l’autista e li portarono da Ludmila per presentarsi nel nuovo ruolo, il mondo si rovesciò.
Le amiche, che con pietà e ironia parlavano del «vecchio riccone», ammutolirono dall’invidia vedendo quella coppia incredibilmente bella.
Ludmila piangeva, ma ora erano lacrime di sollievo e felicità, e Gleb guardava il nuovo parente come un supereroe di un film.
Ma i brividi più forti, gelidi e brucianti insieme, correvano sulla pelle di Alisa non allora.
La coglievano più tardi, di notte, quando si svegliava e, alla luce della luna, vedeva il volto addormentato del marito — giovane, indifeso, autentico.
Ricordava quella voce al telefono, quello sguardo dall’auto, quel vecchio all’anagrafe.
E capiva di essersi sposata con due uomini nello stesso tempo.
Con quello, saggio e calmo, che aveva conquistato la sua mente al telefono, e con l’altro — impulsivo, appassionato, che avrebbe conquistato il suo cuore con uno sguardo al mercato. Eppure erano la stessa persona.
Il suo Stepan.
Il suo misterioso, inquietante, vertiginoso e più reale dei sogni, dono di felicità che era giunto a lei sotto le spoglie dell’inganno per regalarle la verità più autentica.







